venerdì 24 settembre 2010

Eczema o dermatite

L'eczema o dermatite è una malattia della pelle di tipo infiammatorio.
Le cause possono essere diverse, mentre le forme sono prevalentemente due: una forma di eczema dovuta al contatto con sostanze irritanti o allergizzanti (eczema o dermatite da contatto) e una forma dovuta a particolari disfunzioni del nostro organismo (eczema atopico o dermatite atopica).

Come si manifesta???
Nella fase acuta l'eczema si manifesta con vescicole sulla pelle, che possono rompersi liberando un liquido chiaro. Successivamente le vescicole cicatrizzano con formazione di croste e infine si manifesta la desquamazione della pelle. L'eczema provoca intenso prurito, che può impedire il sonno e peggiora notevolmente la qualità di vita.
Nella dermatite da contatto le lesioni compaiono nei punti in cui le sostanze irritanti vengono a contatto con la pelle, per esempio le mani o il collo e i polsi se si tratta di allergia a catenelle o bracciali.
Nell'eczema atopico, invece le parti del corpo più colpite sono il viso, il collo, la pelle dei gomiti, delle ginocchia, dei polsi e delle caviglie. La pelle diventa via via più secca e più spessa, fino ad assumere un aspetto particolare.
Eczema o dermatite da contatto
 
Nella dermatite da contatto da sostanze irritanti l'infiammazione è provocata da particolari sostanze che vengono a contatto con la pelle.
Gli eczemi da contatto possono essere di tipo allergico o non allergico.
Nella dermatite di tipo non allergico (anche chiamata dermatite da contatto irritante, DCI) si ha irritazione cutanea diretta e danno cellulare, quando una sostanza viene applicata sulla cute per un tempo e con una concentrazione sufficienti.
Nella dermatite di tipo allergico (o eczema allergico, o topico, o dermatite da contatto allergica, o DAC) si manifesta una sensibilizzazione allergica, mediata da cellule, verso particolari sostanze.
Inizialmente le lesioni sono localizzate nella sede di esposizione agli agenti sensibilizzanti, ma se tale esposizione persiste è possibile l'estensione ad altre zone della cute.
Le sostanze sensibilizzanti, responsabili dell'eczema, sono moltissime: i metalli come cromo, nichel, cobalto; i farmaci per uso locale (antibiotici, antistaminici); i cosmetici (tinture per capelli, smalto per unghie, deodoranti); alcune fibre tessili; alcune sostanze usate in ambiente domestico (come i detersivi).
Per la diagnosi di eczema allergico sono molto efficaci i test allergologici epicutanei con gli allergeni sospetti.
Eczema atopico o dermatite atopica
 
L'eczema atopico, o costituzionale, è un tipo di dermatite a decorso cronico-recidivante, che si associa spesso a una storia personale e familiare di malattie allergiche come la rinocongiuntivite allergica o l’asma allergico. Nella genesi di questa malattia sono probabilmente implicati numerosi fattori: genetici, immunologici, ambientali ecc. Nella maggior parte dei casi l'eczema atopico insorge precocemente, fra il secondo e il sesto mese di vita, in altri casi, rari, compare in età adulta.
Nei primi due anni di vita si localizza al cuoio capelluto, al volto, agli arti e al tronco. Alcuni bambini guariscono entro il secondo anno di vita, in altri la malattia regredisce alla pubertà, in altri ancora persiste per tutta la vita con fasi di riaccensione e di remissione. In genere la dermatite tende a regredire spontaneamente durante i periodi di soggiorno estivo al mare. Col passare del tempo le manifestazioni divengono meno acute ed essudanti, assumendo aspetti infiltrativi e secchi, con tendenza a localizzarsi alle palpebre, intorno alla bocca, sul collo e sulle superfici flessorie degli arti.
Per la diagnosi di eczema atopico sono importanti un'accurata anamnesi personale e familiare, e la misurazione della quantità di immunoglobuline E (IgE) presenti nel sangue, spesso correlata alla gravità della malattia. L'eczema atopico è spesso associato ad allergia al latte o agli acari della polvere.
Altre forme di dermatite
 
L'eczema seborroico è una forma particolare di dermatite che si manifesta in due modi: l’eczema seborroico infantile (o crosta lattea) e l’eczema seborroico dell’adulto.
La crosta lattea si manifesta con croste giallastre e stratificate, di tipo squamoso, che si presentano inizialmente isolate per poi interessare tutto il capo. La crosta làttea può interessare anche il volto e alcune volte diffondersi alle grandi pieghe. La crosta làttea regredisce spontaneamente nel giro di poche settimane o mesi, non comporta prurito o altri problemi per la salute del bambino.
L'eczema seborroico dell'adulto colpisce la zona mediana anteriore e posteriore del torace, il cuoio capelluto, il viso. Compaioni chiazze eritematose ricoperte da squame giallastre; al cuoio capelluto si può manifestare con la forfora.
La disidrosi è un tipo di dermatite che si localizza alle facce laterali e palmari delle dita delle mani, e alle piante e facce laterali dei piedi. È caratterizzata da vescicole di varie dimensioni, raggruppate o sparse, che tendono a confluire in bolle. Le vescicole sono dure al tatto e resistenti ai traumatismi, e compaiono insieme a un forte prurito.
Le vescicole tendono a riassorbirsi spontaneamente in qualche giorno, lasciando delle squamo-croste. La disidrosi tende a recidivare, specie in primavera; possono insorgere alcune complicazioni come il sovrapporsi di infezioni e il manifestarsi di un eczema allergico se il soggetto è sottoposto a sostanze irritanti con una certa frequenza.
 
Cosa fare in caso di dermatite???
 
Nella dermatite da contatto va individuata la sostanza o le sostanze dannose: il contatto con queste sostanze va evitato o sospendendone l'impiego o indossando indumenti protettivi (esempio guanti), o proteggendo la pelle con delle speciali creme "barriera". Spesso le sostanze irritanti non giungono a contatto del corpo in forma pura ma, il più delle volte, come componenti di oggetti di vario genere.
La dermatite atopica si cura con cortisonici e mantenendo la pelle protetta e idratata. Bisogna quindi evitare l'uso di sostanze irritanti come profumi e cosmetici, non utilizzare sapone sulle parti colpite oppure utilizzare per la pulizia della pelle prodotti particolari. I vestiti devono essere di cotone, leggeri, evitanto lana e fibre sintetiche che possono peggiorare l'irritazione.
Nel caso dei bambini, è utile tenere molto corte le unghie, per evitare che si graffi o fargli indossare guanti, in particolare di notte.

Anemia: i sintomi, le tipologie e il ruolo della dieta

Ne esistono diverse forme più o meno gravi: impariamo a conoscerle per evitare ulteriori problemi.

Protagonista delle anemie (non ce n’è una sola, ma, come vedremo, diverse) è l’emoglobina, la sostanza che si trova nei globuli rossi e che conferisce al sangue il suo colore rosso rubino. Il compito dei globuli rossi è quello di trasportare l’ossigeno dai polmoni al resto dell’organismo e, per far questo, si utilizza infatti l’emoglobina. Quest’ultima, per legare a sé l’ossigeno, ha bisogno del ferro che, se viene a mancare o a diminuire, crea problemi all’ossigenazione delle cellule del corpo. La diagnosi di anemia viene formulata quando la quantità di emoglobina scende al di sotto di 13 g/dl nell'uomo e di 12 g/dl nella donna. Il corpo produce troppo pochi globuli rossi sani, ne perde troppi o li distrugge in numero maggiore rispetto a quanti ne produce.
L’anemia può essere leggera o acuta, cronica o passeggera, genetica o causata da una carenza di ferro o vitamine oppure da perdite di sangue (è frequente nelle adolescenti durante le prime mestruazioni, se il flusso è abbondante) o da malattie croniche. E’ facilmente diagnosticabile, basta infatti un semplice esame del sangue (emocromo), mentre è più difficile definire esattamente di quale tipo di anemia si tratta.
Spesso i bambini non riescono a mantenere o a raggiungere un giusto equilibrio tra la quantità di ferro che l’organismo introduce attraverso il cibo e quello di cui si ha bisogno durante la crescita. Ciò accade specialmente nei primi mesi di vita, quando l’alimentazione è prevalentemente a base di latte. Non si tratta di una vera e propria anemia, ma solo di una minor quantità di emoglobina e ferro che dovrebbe tendere a scomparire spontaneamente con il tempo, quando l’alimentazione diventerà più ricca.

I sintomi
Oltre al pallore (e alla diminuzione del colorito rosa delle labbra e delle gengive) gli altri sintomi sono:
  • debolezza (è, non a caso, chiamata anche la malattia del “sangue stanco”)
  • irritabilità e difficoltà a concentrarsi
  • piedi e/o mani spesso fredde, e/o formicolio
  • capogiri e ronzii alle orecchie
  • accelerazione del battito cardiaco a seguito di leggeri sforzi (nei casi gravi)
  • respiro affannoso a seguito di leggeri sforzi (nei casi gravi)
I vari tipi di anemia
Da carenza di ferro
Per produrre la giusta quantità di emoglobina il midollo osseo ha bisogno di ferro che si introduce tramite l’alimentazione: un basso livello di questo minerale causa anemia. Gli alimenti ricchi di ferro sono soprattutto: il fegato (di manzo, maiale, cavallo), la carne (soprattutto rossa), i legumi e il tuorlo delle uova.
Anemia da deficienza di vitamine
Altro elemento importante per la produzione di globuli rossi sani è la presenza di acido folico e di vitamina B12. Anche qui si tratta di avere una dieta ricca per consentire all’organismo di assorbirne la quantità necessaria. In alcuni casi può essere presente una difficoltà di assorbimento di questo tipo di nutrienti, specie in presenza di anemia perniciosa. La vitamina B12 si trova nel fegato e nel rognone, nel pesce, nella carne rossa e nei formaggi. L’acido folico si trova nel fegato, in alcune verdure a foglia verde (spinaci, asparagi, broccoli, lattuga), nelle arance, nei limoni, nei kiwi e nelle fragole, nei legumi e nei cereali.
Anemia da malattie croniche
E’ difficile che si presenti nei bambini ed è causata da infiammazioni croniche (epatite, problemi renali, cancro e Aids). Può essere causata anche da malattie intestinali, che provocano un malassorbimento delle sostanze nutritive, come ad esempio in caso di celiachia (intolleranza al glutine)
Anemia emolitica
E’ caratterizzata dalla distruzione veloce dei globuli rossi tanto da non permettere al midollo di rimpiazzarli. Poco comune nei bambini.
Anemia aplastica
E’ la più grave ed è causata dalla limitata capacità del midollo di produrre i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine. Fortunatamente è poco comune, ma può essere scatenata anche dalla reazione ad alcuni tipi di farmaci.
Anemia mediterranea o talassemia
E’ una malattia congenita ereditaria assai comune nel nostro paese caratterizzata da una produzione irregolare di emoglobina. Esistono due tipi di talassemia: la ´minor´ (si è portatori sani, non ci sono sintomi e non costituisce alcun rischio se non quando si decide di avere un figlio: nel caso si trovi un partner anch’egli portatore sano, le probabilità di avere un bambino malato è del 50%) e la ´maior´ (la malattia è conclamata e non esiste altra forma di cura se non trasfusioni di sangue e trapianto di midollo; è una malattia che può essere ormai facilmente diagnosticabile anche in fase prenatale)

mercoledì 22 settembre 2010

DIABETE

Il diabete è una malattia cronica caratterizzata dalla presenza di elevati livelli di glucosio nel sangue (iperglicemia) e dovuta a un’alterata quantità o funzione dell’insulina. L’insulina è l’ormone, prodotto dal pancreas, che consente al glucosio l’ingresso nelle cellule e il suo conseguente utilizzo come fonte energetica. Quando questo meccanismo è alterato, il glucosio si accumula nel circolo sanguigno.


Diabete tipo 1
Riguarda circa il 10% delle persone con diabete e in genere insorge nell’infanzia o nell’adolescenza. Nel diabete tipo 1, il pancreas non produce insulina a causa della distruzione delle cellule ß che producono questo ormone: è quindi necessario che essa venga iniettata ogni giorno e per tutta la vita. La velocità di distruzione delle ß-cellule è, comunque, piuttosto variabile, per cui l’insorgenza della malattia può avvenire rapidamente in alcune persone, solitamente nei bambini e negli adolescenti, e più lentamente negli adulti (in questi rari casi si parla di una forma particolare, detta LADA: Late Autommune Diabetes in Adults).

La causa del diabete tipo 1 è sconosciuta, ma caratteristica è la presenza nel sangue di anticorpi diretti contro antigeni presenti a livello delle cellule che producono insulina, detti ICA, GAD, IA-2, IA-2ß. Questo danno, che il sistema immunitario induce nei confronti delle cellule che producono insulina, potrebbe essere legato a fattori ambientali (tra i quali, sono stati chiamati in causa fattori dietetici) oppure a fattori genetici, individuati in una generica predisposizione a reagire contro fenomeni esterni, tra cui virus e batteri. Quest’ultima ipotesi si basa su studi condotti nei gemelli monozigoti (identici) che hanno permesso di dimostrare che il rischio che entrambi sviluppino diabete tipo 1 è del 30-40%, mentre scende al 5-10% nei fratelli non gemelli e del 2-5% nei figli. Si potrebbe, quindi, trasmettere una “predisposizione alla malattia” attraverso la trasmissione di geni che interessano la risposta immunitaria e che, in corso di una banale risposta del sistema immunitario a comuni agenti infettivi, causano una reazione anche verso le ß cellule del pancreas, con la produzione di anticorpi diretti contro di esse (auto-anticorpi). Questa alterata risposta immunitaria causa una progressiva distruzione delle cellule ß, per cui l'insulina non può più essere prodotta e si scatena così la malattia diabetica.

Per questo motivo, il diabete di tipo 1 viene classificato tra le malattie cosiddette “autoimmuni”, cioè dovute a una reazione immunitaria diretta contro l’organismo stesso. Tra i possibili agenti scatenanti la risposta immunitaria, sono stati proposti i virus della parotite (i cosiddetti "orecchioni"), il citomegalovirus, i virus Coxackie B, i virus dell'encefalomiocardite. Sono poi in studio, come detto, anche altri possibili agenti non infettivi, tra cui sostanze presenti nel latte.

Diabete tipo 2
È la forma più comune di diabete e rappresenta circa il 90% dei casi di questa malattia. La causa è ancora ignota, anche se è certo che il pancreas è in grado di produrre insulina, ma le cellule dell’organismo non riescono poi a utilizzarla. In genere, la malattia si manifesta dopo i 30-40 anni e numerosi fattori di rischio sono stati riconosciuti associarsi alla sua insorgenza. Tra questi: la familiarità per diabete, lo scarso esercizio fisico, il sovrappeso e l’appartenenza ad alcune etnie. Riguardo la familiarità, circa il 40% dei diabetici di tipo 2 ha parenti di primo grado (genitori, fratelli) affetti dalla stessa malattia, mentre nei gemelli monozigoti la concordanza della malattia si avvicina al 100%, suggerendo una forte componente ereditaria per questo tipo di diabete.

Anche per il diabete tipo 2 esistono forme rare, dette MODY (Maturity Onset Diabetes of the Young), in cui il diabete di tipo 2 ha un esordio giovanile e sono stati identificati rari difetti genetici a livello dei meccanismi intracellulari di azione dell’insulina.

Il diabete tipo 2 in genere non viene diagnosticato per molti anni in quanto l’iperglicemia si sviluppa gradualmente e inizialmente non è di grado severo al punto da dare i classici sintomi del diabete. Solitamente la diagnosi avviene casualmente o in concomitanza con una situazione di stress fisico, quale infezioni o interventi chirurgici.

Il rischio di sviluppare la malattia aumenta con l’età, con la presenza di obesità e con la mancanza di attività fisica: questa osservazione consente di prevedere strategie di prevenzione “primaria”, cioè interventi in grado di prevenire l’insorgenza della malattia e che hanno il loro cardine nell’applicazione di uno stile di vita adeguato, che comprenda gli aspetti nutrizionali e l’esercizio fisico.

Diabete gestazionale
Si definisce diabete gestazionale ogni situazione in cui si misura un elevato livello di glucosio circolante per la prima volta in gravidanza. Questa condizione si verifica nel 4% circa delle gravidanze. La definizione prescinde dal tipo di trattamento utilizzato, sia che sia solo dietetico o che sia necessaria l’insulina e implica una maggiore frequenza di controlli per la gravida e per il feto.

Segni e sintomi
La sintomatologia di insorgenza della malattia dipende dal tipo di diabete. Nel caso del diabete tipo 1 di solito si assiste a un esordio acuto, spesso in relazione a un episodio febbrile, con sete (polidipsia), aumentata quantità di urine (poliuria), sensazione si stanchezza (astenia), perdita di peso, pelle secca, aumentata frequenza di infezioni.

Nel diabete tipo 2, invece, la sintomatologia è più sfumata e solitamente non consente una diagnosi rapida, per cui spesso la glicemia è elevata ma senza i segni clinici del diabete tipo 1.

Diagnosi
I criteri per la diagnosi di diabete sono:
  • sintomi di diabete (poliuria, polidipsia, perdita di peso inspiegabile) associati a un valore di glicemia casuale, cioè indipendentemente dal momento della giornata, ≥ 200 mg/dl
oppure
  • glicemia a digiuno ≥ 126 mg/dl. Il digiuno è definito come mancata assunzione di cibo da almeno 8 ore.
oppure
  • glicemia ≥ 200 mg/dl durante una curva da carico (OGTT). Il test dovrebbe essere effettuato somministrando 75 g di glucosio.
Esistono, inoltre, situazioni cliniche in cui la glicemia non supera i livelli stabiliti per la definizione di diabete, ma che comunque non costituiscono una condizione di normalità. In questi casi si parla di Alterata Glicemia a Digiuno (IFG) quando i valori di glicemia a digiuno sono compresi tra 100 e 125 mg/dl e di Alterata Tolleranza al Glucosio (IGT) quando la glicemia due ore dopo il carico di glucosio è compresa tra 140 e 200 mg/dl. Si tratta di situazioni cosiddette di “pre-diabete”, che indicano un elevato rischio di sviluppare la malattia diabetica anche se non rappresentano una situazione di malattia. Spesso sono associati a sovrappeso, dislipidemia e/o ipertensione e si accompagnano a un maggior rischio di eventi cardiovascolari.

Complicanze del diabete
Il diabete può determinare complicanze acute o croniche. Le complicanze acute sono più frequenti nel diabete tipo 1 e sono in relazione alla carenza pressoché totale di insulina. In questi casi il paziente può andare incontro a coma chetoacidosico, dovuto ad accumulo di prodotti del metabolismo alterato, i chetoni, che causano perdita di coscienza, disidratazione e gravi alterazioni ematiche.

Nel diabete tipo 2 le complicanze acute sono piuttosto rare, mentre sono molto frequenti le complicanze croniche che riguardano diversi organi e tessuti, tra cui gli occhi, i reni, il cuore, i vasi sanguigni e i nervi periferici.
  • Retinopatia diabetica: è un danno a carico dei piccoli vasi sanguigni che irrorano la retina, con perdita delle facoltà visive. Inoltre, le persone diabetiche hanno maggiori probabilità di sviluppare malattie oculari come glaucoma e cataratta: si tratta di una riduzione progressiva della funzione di filtro del rene che, se non trattata, può condurre all’insufficienza renale fino alla necessità di dialisi e/o trapianto del rene
  • nefropatia diabetica
  • malattie cardiovascolari: il rischio di malattie cardiovascolari è da 2 a 4 volte più alto nelle persone con diabete che nel resto della popolazione causando, nei Paesi industrializzati, oltre il 50% delle morti per diabete. Questo induce a considerare il rischio cardiovascolare nel paziente diabetico pari a quello assegnato a un paziente che ha avuto un evento cardiovascolare
  • neuropatia diabetica: è una delle complicazioni più frequenti e secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità si manifesta a livelli diversi nel 50% dei diabetici. Può causare perdita di sensibilità, dolore di diversa intensità e danni agli arti, con necessità di amputazione nei casi più gravi. Può comportare disfunzioni del cuore, degli occhi, dello stomaco ed è una delle principali cause di impotenza maschile
  • piede diabetico: le modificazioni della struttura dei vasi sanguigni e dei nervi possono causare ulcerazioni e problemi a livello degli arti inferiori, soprattutto del piede, a causa dei carichi che sopporta. Questo può rendere necessaria l'amputazione degli arti e statisticamente costituisce la prima causa di amputazione degli arti inferiori di origine non traumatica
  • complicanze in gravidanza: nelle donne in gravidanza, il diabete può determinare conseguenze avverse sul feto, da malformazioni congenite a un elevato peso alla nascita, fino a un alto rischio di mortalità perinatale.

Fattori di rischio
Le complicanze croniche del diabete possono essere prevenute o se ne può rallentare la progressione attraverso uno stretto controllo di tutti i fattori di rischio correlati.
  • Glicemia ed emoglobina glicata (HbA1c). Sono stati effettuati importanti studi clinici che hanno evidenziato l’importanza di un buon controllo metabolico per prevenire l’insorgenza di complicanze. I livelli medi di glicemia nel corso della giornata possono essere valutati mediante la misurazione dell’emoglobina glicata (HbA1c%). L’emoglobina, che è normalmente trasportata dai globuli rossi, può legare il glucosio in maniera proporzionale alla sua quantità nel sangue. In considerazione del fatto che la vita media del globulo rosso è di tre mesi, la quota di emoglobina cui si lega il glucosio sarà proporzionale alla quantità di glucosio che è circolato in quel periodo. Otteniamo, quindi, una stima della glicemia media in tre mesi. Nei soggetti non diabetici, il livello d’emoglobina glicata si mantiene attorno al 4-7 per cento, che significa che solo il 4-7 per cento di emoglobina è legato al glucosio. Nel paziente diabetico questo valore deve essere mantenuto entro il 7% per poter essere considerato in “buon controllo metabolico”
  • pressione sanguigna. Nei diabetici c’è un aumentato rischio di malattia cardiovascolari, quindi il controllo della pressione sanguigna è particolarmente importante, in quanto livelli elevati di pressione rappresentano già un fattore di rischio. Il controllo della pressione sanguigna può prevenire l’insorgenza di patologie cardiovascolari (malattie cardiache e ictus) e di patologie a carico del microcircolo (occhi, reni e sistema nervoso)
  • controllo dei lipidi nel sangue. Anche le dislipidemie rappresentando un aggiuntivo fattore di rischio per le patologie cardiovascolari. Un adeguato controllo del colesterolo e dei lipidi (HDL, LDL e trigliceridi) può infatti ridurre l’insorgenza di complicanze cardiovascolari, in particolare nei pazienti che hanno già avuto un evento cardiovascolare.
L’elevata frequenza di complicanze vascolari impone uno stretto monitoraggio degli organi bersaglio (occhi, reni e arti inferiori). Per questo, è necessario che le persone con diabete si sottopongano a periodiche visite di controllo, anche in assenza di sintomi.

Interventi terapeutici
La terapia della malattia diabetica ha come cardine l’attuazione di uno stile di vita adeguato. Per stile di vita si intendono le abitudini alimentari, l’attività fisica e l’astensione dal fumo.
La dieta del soggetto con diabete (definita negli USA: Medical Nutrition Theraphy, cioè terapia medica nutrizionale) ha l’obiettivo di ridurre il rischio di complicanze del diabete e di malattie cardiovascolari attraverso il mantenimento di valori di glucosio e lipidi plasmatici e dei livelli della pressione arteriosa il più possibile vicini alla normalità.

In linea di massima, si raccomanda che la dieta includa carboidrati, provenienti da frutta, vegetali, grano, legumi e latte scremato, non inferiori ai 130 g/giorno ma controllando che siano assunti in maniera equilibrata, attraverso la loro misurazione e l’uso alternativo. Evitare l’uso di saccarosio, sostituibile con dolcificanti. Come per la popolazione generale, si raccomanda di consumare cibi contenenti fibre. Riguardo i grassi, è importante limitare il loro apporto a <7% delle calorie totali giornaliere, con particolare limitazione ai grassi saturi e al colesterolo.

Un’attività fisica di tipo aerobico e di grado moderato per almeno 150 minuti a settimana oppure di tipo più intenso per 90 minuti a settimana è raccomandata per migliorare il controllo glicemico e mantenere il peso corporeo. Dovrebbe essere distribuita in almeno tre volte a settimana e con non più di due giorni consecutivi senza attività. Come per la popolazione generale si consiglia di non fumare, e a tale scopo dovrebbe essere prevista una forma di sostegno alla cessazione del fumo come facente parte del trattamento del diabete.

I diabetici tipo 1 hanno necessità di regolare in maniera più stretta la terapia insulinica all’apporto dietetico e all’attività fisica, mentre per i diabetici tipo 2, che in genere sono anche sovrappeso o francamente obesi, assume maggior importanza un adeguato stile di vita che comprenda riduzione dell’apporto calorico, soprattutto dai grassi, e aumento dell’attività fisica per migliorare glicemia, dislipidemia e livelli della pressione arteriosa.

LEUCEMIE

Sono un gruppo di malattie maligne eterogeneo del sistema emopoietico caratterizzate dalla proliferazione clonale di cellule staminali totipotenti o già orientate in senso mieloide (linea granu e monocitopoietica) o linfoide (cioè linfocitarie nulle, di tipo B, pre-B e T).
Vengono classificate in acute e croniche.Le acute si caratterizzano per infiltrazione dei tessuti emopoietici ed extraemopoietici da parte di linee cellulari monomorfe senza chiaro orientamento maturativo (blasti), ad esordio improvviso e con decorso aggressivo, invasione del midollo osseo (dolori ossei, s.anemica, infettiva, emorragica). Le forme croniche hanno un decorso lento e si caratterizzano per la proliferazione di cellule più differenziate, molto simili ai normali costituenti.

Le forme acute sono:
a) leucemie linfoidi (LAL), a forme "comuni", "nulle", di tipoB, pre B e T cellulari;
b) leucemie mieloidi (LAM) o non linfoidi (LAnL), caratterizzate dalla proliferazione di blasti originati dalla linea granulo-emonocito-poietica, con decorso grave (per es. leucemia acuta mieloblastica, promielocitica, mielocitica, monocitica, eritroleucemica)

Le forme croniche sono:
a) leucemia mieloide cronica, che nell’85% ha un marker cromosomico, il cromosoma Philadelphia;
b) leucemia linfatica cronica, ad andamento lento, dell’anziano con sopravvivenza di 4-6 anni;
c) leucemia a cellule capellute o "hairy";
d) leucemia prolinfocitica.
Incidenza

LEUCEMIE ACUTE.

LE LEUCEMIE ACUTE LINFOBLASTICHE (LAL).
I linfoblasti sono le cellule che le caratterizzano: sono poco differenziate, dotate di citoplasma basofilo, privo di corpi di Auer e di granulazioni azzurrofile, con nucleo e due nucleoli e cromatina a struttura fine, ammassata. I linfoblasti sono negativi alla colorazione con Sudan nero, mentre alcune cellule si colorano anche col PAS o acido periodico di Schiff, ed hanno attività perossidasica. La classificazione morfologica distingue la LAL in L1 (cellule piccole, comatina omogenea, contorno regolare, basofilia modesta) , L2 (cellule medio-grandi, con cromatina dispersa o addensata, nucleoli ben visibili, contorno irregolare, netta basofilia) e L3 (cellule grandi, cromatina addensata, nucleoli ben visibili, vacuolizzazione del citoplasma). Inoltre con le nuove tecniche è possibile definire le popolazioni di cellule tumorali in linfoidi B, T e "null" ; i linfociti B esprimono le immunoglobuline citoplasmatiche o cIg), di superficie (Sig), i recettori per la frazione Fc delle immunoglobuline e per la terza componente del complemento C3, ed antigeni correlati al locus HLA-D (DR o Ia-like). Questi antigeni di membrana HLA- DR o Ia-like sono specifici delle linee cellulari B linfoidi, ma attualmente sono state riscontrate anche nelle cellule mieloidi, nei linfoblasti non-T ed in cellule attivate;
Leucemie linfoblastiche a cellule B
Leucemie linfoblastiche common
Leucemie acute linfoblastiche a fenotipo null
Leucemie acute linfoblastiche a cellule T

LE  LEUCEMIE ACUTE MIELOIDI
Il termine è comprensivo di varie forme leucemiche che, pur essendo caratterizzate da aspetti clinici e prognostici in parte simili, nostrano una spiccata eterogenità citomorfologica; vengono classificate in forme ad orientamento granulocitico, M1, M2, M3.
M1 o leucemia mieloblastica senza maturazione
M2 o leucemie mieloblastica con maturazione.
M3 o leucemia promielocita.

Nell’ambito delle forme orientate in senso monocitico, avremo:
M4 o leucemia mielomonocitica
M5 o leucemia monocitica pura
M6 omielosi eritremica acuta
M7 LANL

Sintomatologia. Dopo questa classificazione che interessa l’ematologo, diremo che i sintomi si caratterizzano per una triade data da anemia, complicanze infettive da neutropenia, emorragia da piastrinopenia. La sindrome anemica si caratterizza per astenia, esauribilità fisica, ingravescente, cardiopalmo e dispnea da sforzo. La febbre è talora elevata ma può essere intermittente o remittente o capricciosa con puntate serotine; essa dipende da infezioni che si manifestano non appena il tasso dei granulociti si abbassa sotto 1.000/mm3, così come la mortalità aumenta comn l’abbassarsi del tasso: da batteri (stafilococchi, streptococchi, bacillus subtilis, listeria monocytogenes, pseudomonosa aeruginosa, E.coli, proteus vulgaris, bacillus gragilis; da virus herpetici, citomegalovirus, Ebstein Barr, morbillo, protozoi). L’emorragia compare nel 5-10 % dei pazienti a carico della cute e delle mucose (ecchimosi, petecchie, epistassi e gengivorragie, nelle donne metrorragie. La sindrome infiltrativa si caratterizza per adenomegalia, splenomegalia, incremento del volume splenico, mentre l’epatomegalia si riscontra prevalentemente nelle LAM; l’infiltrazione della cute e delle gengive da parte dei blasti leucemici è caratteristica delle leucemie mielomonocitica e monocitica. Anche il tenue può essere interessato (enterite necrotizzante), con dolori addominali ed enterorragie. Un interessamento del SNC (meningite leucemica) è responsabile di exitus. Il dolore osseo dipende dal rapido e progressivo aumento di volume del midollo osseo con compressione ed infiltrazione leucemica del periostio, specie per le ossa piatte (coste e sterno). Il quadro ematologico si caratterizza per un’anemia del tipo normocromico-normocitico, raramente compare anisopoichilocitosi, con reticolociti ridotti, a conferma della natura arigenerativa dell’anemia; le piastrine in oltre il 60% dei casi risultano inferiori a 50X103 / microlitro. Il numero dei leucociti può variare con una conta superiore a 100X103, e/o tra 10X103 e 100X 103./ microlitro. I 2/3 dei pazienti a causa dell’elevato turnover della massa cellulare mostrano rialzo del’acido urico che precipita a livello renale e si rende responsabile di severe complicanze della funzionalità renale fino al quadro della uropatia ostruttiva; si possono osservare rialzi dei valori delle transaminasi, bilirubina e fosfatasi alcalina. Può essere presente ipercalcemia. Esistono, infine, deficit della coagulazione dei fattori V, X, XII, dovuti a coagulopatia da consumo.  Il trattamento della LA comporta due aspetti : a) la cura sintomatica o di supporto, b) la cura specifica.
Terapia.
La cura specifica si avvale dell’induzione della remissione completa ottenuta con l’impiego di uno o più agenti chemioterapici antiblastici + il cortisone; quindi si intensifica la cura con lo scopo di colpire eventuali linee cellulari che residuano; in ultimo si attua un mantenimento e si associa un trattamento chemioterapico con l’intento di effettuare una profilassi della meningite leucemica.
Gli schemi di induzione della remissione per la LAL comprendono l’associazione di :
VINCRISTINA+CORTISONE (successo 50-88% dei casi)
oppure di VINCRISTINA+CORTISONE+ASPARAGINASI (successo 50-88% dei casi)
oppure di VINCRISTINA+CORTISONE+DAUNOMICINA (successo 50-100% dei casi)
I migliori risultati si hanno nei bambini rispetto agli adulti, che rispondono meno bene alla cura.

LEUCEMIE CRONICHE.

.A cellule del tipo megacarioblastico.
. Cellule del tipo eritroblastico.
. Si caratterizzano per linee cellulari del tipo dei monociti in vario stadio evolutivo: monoblasti, promonociti, monociti. Si dividono in forme differenziate e forme non differenziate
. Sono cellule che ricordano i monociti (promonociti e monociti). Per la distinzione si ricorre a prove citochimiche; per es. positiva è la reazione alla naftil-acetato-esterasi.
La maggior parte delle cellule leucemiche è costituita da promielociti abnormi con voluminose granulazioni.
Sono cellule più differenziate, con granulazioni azzurrofile, corpi di Auer, reazione alla perossidasi e al Sudan nero ed alle altre reazioni (naftol AS-D cloroacetato esterasi, naftol AS-D acetato esterasi, alfa-naftil acetato esterasi).
. Le cellule sono blasti indifferenziati con nucleo prevalentemente rotondeggiante, cromatina fine, nucleoli evidenti; essenziale per la diagnosi sono le reazioni citochimiche (perossidasi, naftol AS-D cloroacetato esterasi, naftol AS-D acetato esterasi, alfa-naftil acetato esterasi).
.A fenotipo immunologico T rappresentano il 10-20% delle LAL; a seconda del grado di differenziazione intratimica dei T-linfociti, avremo lo stadio I del timocita precoce; stadio II del timocita comune; stadio III del timocita maturo. Con maggiore frequenza si riscontrano le forme a protimocita o stadio I; le cellule sono HLADR negative, TdT positive, antigene di CALL positivi.
.E’ un sottogruppo che comprende il 5-15% delle LAL dell’infanzia ed il 35% circa delle LAL dell’adulto. Esprimono antigeni HLA-DR e CD19, CD 10, CD 20 ma non altri marker B-linfoidi. Alcune linee cellulari esprimono le catene delle immunoglobuline e vengono ritenute una sorta di preB- CALLA Negative.
. Costituiscono il 75% dei casi di LAL dell’infanzia ed il 50% di LAL dell’adulto ed esprimono l’antigene comune, si dividono in pre-B e pre B precoce; Le pre-B precoce non presentano immunoglobuline di membrana, nè citoplasmatica, mentre le pre-B hanno nel citoplasma la catena alfa pesante delle immunoglobuline. Esprimono HLA-DR ed elevati livelli di TdT, CD19 e CD 20.
. E’ una varietà rara (0,5-2% delle LAL); sintetizzano una immunoglobulina di membrana per lo più una IgMed esprimono antigeni Ia like, CD 19 e CD20;
. La leucemia incide in USA ed Europa per 3,5-6,7 nuovi casi ogni 100.000 abitanti e rappresenta il 30% delle forme neoplastiche. Le due forme principali sono la LAL e la LAM; le LAL hanno una distribuzione bimodale: incidenza maggiore nei bimbi fino a 5 anni, poi declino fino a 40 anni e quindi successivo incremento. Lo stessio dicasi per le LAM, con picco al di sotto dei 5 anni ed incremento al di sopra dei 50 a.

martedì 21 settembre 2010

AIDS

Riportata per la prima volta in letteratura nel 1981, la Sindrome da immunodeficienza acquisita, altrimenti nota come Aids, rappresenta lo stadio clinico terminale dell’infezione da parte del virus dell’immunodeficienza umana (Hiv).

L’Hiv è un virus a Rna che appartiene a una particolare famiglia virale, quella dei retrovirus, dotata di un meccanismo replicativo assolutamente unico. Grazie a uno specifico enzima, la trascrittasi inversa, i retrovirus sono in grado di trasformare il proprio patrimonio genetico a Rna in un doppio filamento di Dna. Questo va inserirsi nel Dna della cellula infettata (detta "cellula ospite") e da lì dirige di fatto la produzione di nuove particelle virali.

Nel caso specifico dell'Hiv, le cellule bersaglio sono particolari cellule del sistema immunitario, i linfociti T di tipo CD4, fondamentali nella risposta adattativa contro svariati tipi di agenti patogeni. L'infezione da Hiv provoca quindi un indebolimento progressivo del sistema immunitario (immunodepressione), aumentando il rischio di infezioni e malattie – più o meno gravi - da parte di virus, batteri, protozoi e funghi, potenzialmente letali alla lunga distanza, e che in condizioni normali potrebbero essere curate più facilmente.

Le fasi della malattiaDopo essere entrata in contatto con l'Hiv, una persona può diventare sieropositiva e cominciare così a produrre anticorpi diretti specificamente contro il virus, dosabili nel sangue. La sieropositività implica che l'infezione è in atto e che è dunque possibile trasmettere il virus ad altre persone. La comparsa degli anticorpi, però, non è immediata. Il tempo che intercorre tra il momento del contagio e la comparsa nel sangue degli anticorpi contro l'Hiv è detto “periodo finestra” e dura mediamente 4-6 settimane, ma può estendersi anche fino a 6 mesi. Durante questo periodo, anche se la persona risulta sieronegativa è comunque in grado di trasmettere l'infezione.
Da sieropositivi, è possibile vivere per anni senza alcun sintomo e accorgersi del contagio solo al manifestarsi di una malattia. Sottoporsi al test della ricerca degli anticorpi anti-Hiv è, quindi, l’unico modo di scoprire l’infezione.
Il periodo di incubazione può durare anche diversi anni, fino a quando la malattia non diventa clinicamente conclamata a causa dell'insorgenza di una o più infezioni cosiddette "opportunistiche". A provocarle sono agenti patogeni che normalmente non riescono a infettare le persone sane, ma soltanto persone con un sistema immunitario fortemente compromesso. Gli agenti principali sono:
  • protozoi, tra cui Pneumocistis carinii, responsabile di una particolare forma di polmonite detta pneumocistosi e Toxoplasma gondii, che provoca la toxoplasmosi, malattia che colpisce il cervello, l'occhio e raramente il polmone
  • batteri, soprattutto Mycobacterium tuberculosis, responsabile della tubercolosi
  • virus, tra cui Herpes e Cytomegalovirus (Cmv)
  • funghi, come per esempio la Candida albicans, che si può sviluppare in molte parti del corpo, soprattutto in bocca, nell'esofago e nei polmoni.
Nella fase conclamata dell'Aids si possono sviluppare diverse forme di tumore, soprattutto linfomi e sarcoma di Kaposi.

Vie di trasmissione Esistono tre diverse modalità di trasmissione dell’Hiv: per via ematica, per via sessuale e per via materno-fetale.

La trasmissione per via ematica avviene con stretto e diretto contatto fra ferite aperte e sanguinanti e scambio di siringhe con un sieropositivo Durante le prime fasi dell’epidemia, quando erano minori anche l conoscenze sui sistemi di diffusione del virus, diverse persone sono state contagiate dall'Hiv in seguito a trasfusioni di sangue o alla somministrazione di suoi derivati. A partire dal 1985 questo tipo di trasmissione dell'infezione è stato praticamente eliminato, grazie a un maggiore controllo delle unità di sangue, al trattamento con calore degli emoderivati e alla selezione dei donatori, ma anche a un minor ricorso a trasfusioni inutili e ad un maggiore utilizzo dell’autotrasfusione.

La trasmissione attraverso il sangue rappresenta, invece, la principale modalità di contagio responsabile della diffusione dell’infezione nella popolazione dedita all’uso di droga per via endovenosa. L’infezione avviene a causa della pratica, diffusa tra i tossicodipendenti, di scambio della siringa contenente sangue infetto. Possono essere infatti veicolo di trasmissione dell’Hiv anche aghi usati, e in questo senso sarebbe opportuno sottoporsi ad agopuntura, mesoterapia, tatuaggi e piercing utilizzando aghi monouso e sterili. Con la stessa modalità è possibile la trasmissione sia dell’Hiv che di altri virus tra i quali quelli responsabili dell’epatite B e C, infezioni anch’esse molto diffuse tra i tossicodipendenti.

La trasmissione sessuale è nel mondo la modalità di trasmissione più diffusa dell’infezione da Hiv. I rapporti sessuali, sia eterosessuali che omosessuali, non protetti dal profilattico possono essere causa di trasmissione dell’infezione. Trasmissione che avviene attraverso il contatto tra liquidi biologici infetti (secrezioni vaginali, liquido pre-eiaculatorio, sperma, sangue) e mucose durante i rapporti sessuali. La trasmissione è possibile anche se le mucose sono integre.

Ovviamente, tutte le pratiche sessuali che favoriscono traumi possono provocare un aumento del rischio di trasmissione. Per questo motivo i rapporti anali sono a maggior rischio, perché la mucosa dell'ano è più fragile e meno protetta di quella vaginale. Ulcerazioni e lesioni dei genitali causate da altre patologie possono inoltre far aumentare il rischio di contagio.

Il coito interrotto non protegge dall'Hiv, così come l'uso della pillola anticoncezionale, del diaframma e della spirale. Le lavande vaginali, dopo un rapporto sessuale, non eliminano la possibilità di contagio.


I rapporti sessuali non protetti possono essere causa di trasmissione non solo dell’Hiv. Esistono, infatti, oltre 30 malattie sessualmente trasmissibili (Mst).

Hiv e gravidanza
La trasmissione da madre a figlio, o verticale, può avvenire durante la gravidanza, durante il parto, o con l’allattamento. Il rischio per una donna sieropositiva di trasmettere l’infezione al feto è circa il 20%. Oggi è possibile ridurlo al di sotto del 4% somministrando zidovudina (Azt, primo farmaco usato contro l’Hiv) alla madre durante la gravidanza e al neonato per le prime sei settimane di vita. Per stabilire se è avvenuto il contagio il bambino deve essere sottoposto a controlli in strutture specializzate per almeno i primi due anni di vita.

Tutti i bambini nascono con gli anticorpi materni. Per questa ragione, il test Hiv effettuato sul sangue di un bambino nato da una donna sieropositiva risulta sempre positivo. Anche se il bambino non ha contratto l’Hiv, gli anticorpi materni possono rimanere nel sangue fino al diciottesimo mese di vita, al più tardi entro i due anni. Il bambino viene sottoposto a test supplementari per verificare se è veramente portatore del virus o se ha ricevuto solo gli anticorpi materni.

Strategie di prevenzione
Poche semplici precauzioni possono ridurre, o addirittura annullare, il rischio di infezione da Hiv. Per evitare la trasmissione dell’infezione per via ematica:
  • evitare l’uso in comune di siringhe e aghi per l’iniezione di droghe
  • non sottoporsi ad agopuntura, mesoterapia, tatuaggi e piercing se gli aghi utilizzati non sono monouso o non sono stati sterilizzati
  • per gli operatori sanitari, fare attenzione nel maneggiare e utilizzare aghi e altri oggetti taglienti
  • per i medici, incoraggiare l’uso di autotrasfusioni e conformarsi in maniera rigida alle indicazioni per le trasfusioni di sangue: le donazioni di sangue vanno sempre sottoposte al test per l'Hiv, né devono donare sangue, plasma, sperma, organi per trapianti, tessuti o cellule le persone che abbiano avuto comportamenti a rischio.
Per evitare la trasmissione dell’infezione per via ematica sessuale:
  • avere rapporti sessuali mutuamente monogamici con un partner che non sia infetto
  • eventualmente, astenersi dai rapporti sessuali
  • nel caso di rapporti occasionali (vaginali, orogenitali o anali), utilizzare il profilattico.
L’uso corretto del profilattico può infatti annullare il rischio di infezione durante ogni tipo di rapporto sessuale con ogni partner. Nei rapporti sessuali il preservativo è l'unica reale barriera protettiva per difendersi dall'Hiv. Non vanno usati lubrificanti oleosi perché potrebbero alterare la struttura del preservativo e provocarne la rottura. È necessario usare il preservativo all’inizio di ogni rapporto sessuale (vaginale, anale, orogenitale) e per tutta la sua durata. Anche un solo rapporto sessuale non protetto potrebbe essere causa di contagio.

Per un uso corretto del profilattico è importante:
  • leggere le istruzioni accluse
  • indossarlo dall’inizio alla fine del rapporto sessuale
  • usarlo solo una volta
  • srotolarlo sul pene in erezione, facendo attenzione a non danneggiarlo con unghie o anelli
  • conservarlo con cura: lontano da fonti di calore (cruscotto dell'auto ed altro) e senza ripiegarlo (nelle tasche, nel portafoglio).
La pillola, la spirale e il diaframma sono metodi utili a prevenire gravidanze indesiderate, ma non hanno nessuna efficacia contro il virus dell’Hiv.

L’uso di siringhe in comune con altre persone sieropositive costituisce un rischio di contagio pertanto è necessario utilizzare siringhe sterili.

Le trasfusioni, i trapianti di organo e le inseminazioni, nei Paesi europei, sono sottoposti a screening e ad accurati controlli per escludere la presenza dell'Hiv.

Come non si trasmette il virus Il virus non si trasmette attraverso:
  • strette di mano, abbracci, vestiti
  • baci, saliva, morsi, graffi, tosse, lacrime, sudore, muco, urina e feci
  • bicchieri, posate, piatti, asciugamani e lenzuola
  • punture di insetti
Il virus non si trasmette frequentando:
  • palestra, piscina, docce, saune e gabinetti
  • scuole, asili e luoghi di lavoro
  • ristoranti, bar, cinema e locali pubblici
  • mezzi di trasporto.
Il test dell'Hiv
Per sapere se si è stati contagiati dall’Hiv, è sufficiente sottoporsi al test specifico per la ricerca degli anticorpi anti-Hiv che si effettua attraverso un normale prelievo di sangue. Il test anti-Hiv è in grado di identificare la presenza di anticorpi specifici che l’organismo produce nel caso in cui entra in contatto con questo virus. Se si sono avuti comportamenti a rischio è bene effettuare il test al termine del sesto mese dall’ultimo rischio di contagio (periodo finestra), poiché gli anticorpi anti-Hiv possono presentarsi anche entro sei mesi di distanza dall’esposizione al contagio.

Bisogna tenere presente che durante il cosiddetto “periodo finestra” (periodo di tempo che va dal momento del contagio a quello della comparsa degli anticorpi) è comunque possibile trasmettere il virus pur non risultando positivi al test.

La Legge italiana (135 del giugno 1990) garantisce che il test sia effettuato solo con il consenso della persona. Il test non è obbligatorio, ma se si sono avuti comportamenti a rischio sarebbe opportuno effettuarlo.

Per eseguire il test, nella maggior parte dei servizi sanitari, non serve ricetta medica, è gratuito e anonimo. Le persone straniere, anche se prive del permesso di soggiorno, possono effettuare il test alle stesse condizioni del cittadino italiano.

Per la sicurezza del neonato, tutte le coppie che intendono avere un bambino dovrebbero valutare l’opportunità di sottoporsi al test. La legge prevede che il risultato del test venga comunicato esclusivamente alla persona che lo ha effettuato.
Sapere precocemente di essere sieropositivi al test dell’Hiv consente di effettuare tempestivamente la terapia farmacologica che permette oggi di migliorare la qualità di vita e vivere più a lungo.

Le terapie
Oggi i medici propongono la terapia Haart (Higly Active Anti-Retroviral Therapy) contro l'infezione da Hiv alle persone sieropositive, sulla base dei cosiddetti "valori" dei linfociti CD4 (cellule del sistema immunitario) e della carica virale (numero di particelle di Hiv nel sangue) che misura la velocità di replicazione dell'infezione.
La terapia è in genere composta da più farmaci antiretrovirali che permettono di ridurre la carica virale e migliorare la situazione immunitaria. Il medico potrà spiegare meglio quali sono le varie possibilità terapeutiche, i possibili effetti collaterali, le modalità di assunzione dei farmaci. Nel 1987 è stato introdotto il primo farmaco antiretrovirale, la zidovudina (Azt), in grado di inibire l'attività della trascrittasi inversa, fondamentale per la replicazione dell'Hiv. A questa molecola hanno fatto seguito altre con meccanismo d'azione simile. Successivamente si sono aggiunti il 3tc e il D4t, come farmaci sinergici rispetto all'azione dell'Azt, ma anche altri inibitori della trascrittasi inversa, come la nevirapina e l'efavirenz, che agiscono con un diverso meccanismo.

Nel 1997 è stata introdotta una nuova categoria di farmaci, gli inibitori della proteasi (come l'amprenavir), capaci di ostacolare l'enzima virale necessario per completare la sintesi del rivestimento esterno del virus.

A causa della forte tendenza dell'Hiv a mutare (la trascrittasi inversa è un enzima che spontaneamente introduce degli errori nel genoma virale), è necessario non soltanto trovare farmaci sempre nuovi, ma anche adottare delle terapie combinate. In questo modo si cerca di ridurre al minimo o quantomeno di ritardare l'insorgenza di ceppi virali multiresistenti.

Sono inoltre in sperimentazione classi di farmaci mirate alla stimolazione e al supporto del sistema immunitario, piuttosto che a una diretta azione antivirale. Accanto a farmaci, sono in corso molti studi in diversi laboratori in tutto il mondo per mettere a punto un vaccino efficace, che possa associare a una azione preventiva anche una possibile azione terapeutica.

Nei Paesi occidentali i successi terapeutici contro l'Aids sono dunque in gran parte dovuti ai risultati ottenuti dalla ricerca scientifica che ha consentito di individuare farmaci dotati di potente attività antivirale.
Occorre tuttavia tenere ben presente che le attuali strategie terapeutiche non consentono la guarigione dall'infezione ma permettono di tenerla sotto controllo. È quindi essenziale individuare nuove strategie terapeutiche con meccanismi di azione diversi da quelli di cui oggi disponiamo.

lunedì 20 settembre 2010

Carcinoma della Mammella

Amici! Voglio proporvi un piccolo approfondimento trovato sul web, su un argomento delicato che purtroppo puo interessare direttamente o indirettamente a molti. Spero lo apprezzerete!

CARCINOMA  DELLA  MAMMELLA

Epidemiologia: è la neoplasia più frequente del sesso femminile e la sua incidenza è in lieve ma costante aumento in tutto il mondo. In Italia si stima una maggiore incidenza nelle regioni settentrionali e nelle aree urbane. Globalmente è la prima causa di morte per tumore nella donna.
Eziologia: i fattori eziologici sono in gran parte sconosciuti. I principali fattori di rischio sono rappresentati da:
- fattori famigliari e genetici: la presenza di un famigliare di primo grado ammalato di carcinoma della mammella comporta un rischio di carcinoma mammario circa il doppio rispetto alla popolazione generale. La predisposizione alla malattia sembra essere ereditata come tratto autosomico dominante e sembra essere legata a:
▪ mutazioni della p53 nelle pazienti con sindrome di Li-Fraumeni
▪ mutazioni coinvolgenti il gene BRCA-1, localizzato sul cromosoma 17, e il gene BCRA-2, localizzato sul cromosoma 13
- fattori riproduttivi: il rischio appare inversamente correlato all’età della prima gravidanza e al numero di gravidanze a termine, per il potente stimolo differenziativo che ciascuna gravidanza esercita sull’epitelio mammario, mentre sembrerebbero fattori di rischio certi il menarca precoce e la menopausa tardiva. Questi ultimi due fattori corrisponderebbero a una maggiore durata della vita riproduttiva e , di conseguenza, a una più lunga esposizione dell’epitelio agli stimoli proliferativi degli estrogeni
- fattori ormonali: i livelli di esposizione agli estrogeni da parte della ghiandola mammaria sembra rappresentino il principale fattore di rischio. Ancora da appurare il ruolo dei progestinici. Alcuni studi hanno evidenziato un incremento del rischio nelle pazienti che assumono una terapia sostitutiva ormonale per prevenire i tipici disturbi post-menopausali. Controverso il ruolo dei contraccettivi orali
- fattori antropometrici: confermato fattore di rischio è l’obesità probabilmente dovuto al fatto che il tessuto adiposo rappresenta la principale fonte di estrogeni circolanti nella donna nel post-menopausa
- fattori dietetici: un rischio aumentato sembrerebbe essere associato al consumo di grassi animali e a un basso introito di fibre vegetali
Clinica della neoplasia in fase iniziale: raramente esistono segni clinici che possono far sospettare la presenza della neoplasia. Non sono da sottovalutare:
- presenza di un nodulo duro, non dolente a margini mal delimitabili
- retrazione della cute e del capezzolo
- presenza di linfoadenopatia ascellare
- secrezione ematica dal capezzolo
- erosione eczematoide pruriginosa del capezzolo o dell’areola
- segni di infiammazione: mammella ingrossata, calda, arrossata, edematosa, dolente (mastite carcinomatosa)
Clinica della neoplasia in fase avanzata: quadro clinico eterogeneo in dipendenza della localizzazione delle metastasi:
- metastasi cutanee: da piccole lesioni papulari a grosse lesioni confluenti e ulcerate fino alla formazione di vere e proprie corazze
- metastasi ossee: dolore di notevole intensità accompagnato spesso da una frattura patologica
- metastasi polmonari: tosse, dispnea, emoftoe e versamento pleurico
- metastasi epatiche: asintomatiche fino a che non determinano una significativa riduzione del parenchima epatico funzionante: aumento delle transaminasi (AST, ALT), della bilirubina e della fosfatasi alcalina
- metastasi cerebrali: sintomi e segni di ipertensione endocranica (cefalea e vomito senza nausea)
Diagnosi:
● Esame clinico: ispezione e palpazione delle mammelle. Consente di identificare noduli palpabili, alterazioni del capezzolo e della cute e tumefazione dei linfonodi regionali.
● Mammografia: è l’esame cardine della diagnostica senologica. Permette di rilevare noduli radiopachi a contorni infiltranti, microcalcificazioni, segni di distorsione e infiltrazione del parenchima. Consente il rilievo di lesioni anche di pochi millimetri e la citologia per aspirazione
● Ecografia:utile per integrare la mammografia
● Esame citologico mediante aspirazione con ago sottile: utile per confermare la diagnosi di neoplasia nel pre-operatorio
● Biopsia chirurgica: utile in caso si diagnosi dubbia
Stadiazione: la valutazione dell’estensione della malattia deve essere effettuata, prima di qualunque intervento terapeutico, attraverso:
- mammografia
- radiografia del torace in 2 proiezioni
- ecografia epatica
- scintigrafia ossea ed esame radiologico con stratigrafia delle aree di iperaccumulo
- altri esami a discrezione del clinico
Tali esami consentono la definizione del TNM clinico:

T: tumore primitivo
TX: tumore primitivo non definibile
T0: tumore primitivo non evidenziabile
Tis: Carcinoma in situ: CA intraduttale, CA lobulare in situ o malattia di Paget del capezzolo senza tumore sottostante
T1: tumore <> 2 e <> di 5 cm nella sua dimensione massima
T4: tumore di qualsiasi dimensione con estensione diretta alla parete toracica e/o alla cute

N: linfonodi regionali
NX: linfonodi regionali non valutabili
N0: assenza di metastasi ai linfonodi regionali
N1: metastasi mobili ai linfonodi ascellari omolaterali
N2: metastasi ai linfonodi ascellari omolaterali che appaiono fissi o a pacchetto, o apparente positività clinica dei linfonodi mammari interni omolaterali in assenza di metastasi ai linfonodi ascellari clinicamente manifeste
N3: metastasi ai linfonodi infraclavicolari omolaterali, o apparente positività clinica dei linfonodi mammari interni omolaterali in presenza di metastasi ai linfonodi ascellari clinicamente manifeste, o metastasi ai linfonodi sovraclavicolari omolaterali

M: metastasi a distanza
MX: metastasi a distanza non accertabili
M0: assenza di metastasi a distanza
M1: presenza di metastasi a distanza

Si considerano inoperabili i casi classificati come T4-N2-3. Molto utile è la classificazione in stadi che raggruppa le categorie TNM:

Stadio 0:
Tis N0 M0
Stadio I:
T1 N0 M0
Stadio IIA:
T0 N1 M0
T1 N0 M0
T2 N0 M0
T2 N1 M0
Stadio IIB:
T2 N1 M0
T3 N0 M0
Stadio IIIA:
T0 N2 M0
T1 N2 M0
T2 N2 M0
T3 N1 M0
T3 N2 M0
Stadio IIIB:
T4 N0 M0
T4 N1 M0
T4 N2 M0
Stadio IIIC:
qualunque T N3 M0
Stadio IV:
qualunque T qualunque N M1

Terapia: si basa sulla chirurgia, la chemioterapia, l’ormonoterapia e la moderna terapia a bersaglio molecolare specifico.
Prevenzione: sono possibili due strategie preventive:
- screening senologico: screening mammografico della popolazione asintomatica efficace nella fascia di popolazione tra i 50 e i 69 anni. La periodicità del test deve essere compresa tra 1 e 3 anni
- chemioprevenzione: rappresenta un approccio sperimentale. Risultati molto interessanti si sono ottenuti con i composti ad azione antiestrogenica. Tra gli antiestrogeni, il Tamoxifene è al momento oggetto di sperimentazione clinica avanzata quale agente chemiopreventivo ed è l’unico farmaco approvato al momento solo negli USA. Vanno menzionati quali agenti chemiopreventivi, gli inibitori dell’aromatasi che esercitano attività antiestrogenica indiretta riducendo la produzione endogena di estrogeni nelle donne in post-menopausa.